Il 12 maggio scorso, durante la sessione del parlamento dell’Unione Europea a Strasburgo, è stata approvata a larghissima maggioranza una mozione che pare indirizzare la Commissione Europea verso il mancato riconoscimento dello Status di Economia di Mercato (MES) alla Repubblica Popolare Cinese. Alla fine del 2016, infatti, scadrà il paragrafo (a)(iii) dell’articolo 15 del trattato che ha regolato l’ingresso della Cina nel WTO, e che permette di trattare l’economia cinese come non fosse un’economia di mercato, adottando significative misure ad hoc, per esempio per quanto riguarda l’anti-dumping. Secondo i cinesi, allo scadere di questo articolo, il riconoscimento del MES dovrebbe essere automatico. Mentre gli aspetti legali sono poco chiari, la decisione politica dell’europarlamento sembra momentaneamente prendere una direzione ben precisa. Nonostante la mozione, approvata dall’84% degli europarlamentari presenti (4% i contrari, 12% gli astenuti), non abbia alcun potere vincolante, la simbologia del gesto e la quasi unanimità con cui è stato approvato, hanno sollevato dure reazioni dal governo cinese, che ha già paventato eventuali ritorsioni.
Nello specifico, alla mozione finale si è arrivati attraverso una trattazione e la votazione su diverse mozioni proposte da singoli gruppi parlamentari. Complessivamente, tra gli unici oppositori alla mozione finale, vi sono i deputati dell’Europa delle Nazioni e della Libertà (ENF), l’eurogruppo che racchiude al suo interno i cosiddetti “euroscettici”, e pochi altri. Se si considera la ragione di questo voto d’opposizione, dettata dal rifiuto precedente ad una mozione molto più dura proposta dall’ENF stesso, si può tranquillamente concludere che il rifiuto al riconoscimento del MES alla Cina gode pressappoco dell’unanimità all’interno del parlamento di Strasburgo.
La mozione finale, indirizzata direttamente alla Commissione Europea, inizia con una premessa in cui viene riconosciuto il buon stato dei rapporti economici tra Cina e Unione Europea e l’importanza ricoperta dal partner cinese nell’economia mondiale. Nelle conclusioni, tuttavia, sostiene che la Cina non soddisfa ancora i cinque criteri dell’UE che permettono la definizione di economia di mercato e propone di continuare ad utilizzare misure restrittive “non standard” sulle importazioni, applicando, laddove necessario, misure anti-dumping ed anti-sussidi. Chiede dunque alla commissione di prendere in considerazione i dubbi del parlamento, pur dicendosi disponibile a discutere nuove argomentazioni che dovessero emergere dal prossimo summit fra UE e Cina, in cui dovrebbe essere discussa la materia.
Nel complesso, la mozione ruota dunque attorno ai “cinque criteri” dell’UE. Questi sono: una contenuta presenza dell’influenza governativa nell’allocazione delle risorse e nelle decisioni delle imprese; assenza della distorsione nell’economia privata; l’effettiva implementazione del diritto delle imprese, con adeguate regole di corporate governance; un’effettiva cornice legale per la conduzione degli affari e un funzionamento appropriato di un’economia a mercato libero; l’esistenza di un settore finanziario genuino. Sebbene la mozione li citi chiaramente, è da notare che un emendamento allo specifico articolo della mozione, che ne avrebbe snaturato le conclusioni, sia stato respinto. Tale emendamento, infatti, legava in maniera indissolubile il riconoscimento del MES al raggiungimento dei cinque criteri, mentre la mozione finale vi fa solo un riferimento generico. L’emendamento, votato quasi al completo dai deputati dell’ENF e dell’Europa della Libertà e della Democrazia Diretta, è fallito per via del voto contrario di tutti i 158 eurodeputati del Partito Socialista Europeo (PSE), che detiene la maggioranza del parlamento, e del Partito Popolare Europeo (PPE), aggiunti alla contrarietà delle sinistre (GUE e Verdi) e dei liberali (ALDE e ECR). È proprio il rifiuto di questa mozione che ha probabilmente spinto a votare contro la mozione finale gli ossi più duri e decisamente contrari non solo al riconoscimento del MES, ma in generale alla presenza economica stessa della Cina in Europa. Si sono opposti infatti alla risoluzione in questione, tra gli altri, i leghisti Buonanno, Fontana e Borghezio, tutt’altro che morbidi nei confronti della Cina.
A livello di paesi europei, gli europarlamentari più scettici sulla questione sono quelli italiani (97% degli europarlamentari) e i francesi (92%). Un dato che sorprende, da un lato, poiché si tratta di due dei paesi meno affetti dalle importazioni cinesi (molto più la Germania, che invece appare più morbida), ma che dall’altro è invece piuttosto scontato, considerando che l’Italia è il paese che ha una percezione più negativa della Cina all’interno dell’UE e non solo.
Naturalmente, i timori dei contrari, ad esclusione di quelli che lo sono ideologicamente, hanno ragione d’esistere: vi sono effettivamente delle conseguenze negative che verrebbero dall’apertura al mercato cinese, com’è ovvio che sia, poiché si verrebbe privati di alcuni strumenti protezionistici, comunque non sempre utilizzati in maniera appropriata. D’altro canto, tuttavia, il riconoscimento è fondamentale per la Cina e sarebbe un importante gesto politico e strategico, più che economico, verso un paese che, seppur in rallentamento, rimane la seconda economia al mondo e la prima potenza commerciale, oltre che un importantissimo partner dell’UE e dell’Italia (dove peraltro ha già investito costantemente negli ultimi anni). Per di più, forse nel tentativo di ammorbidire le posizioni europee, il governo cinese ha già espresso la propria intenzione di investire nel “piano Juncker”, rimpinguandone le casse. E’ evidente che l’economia cinese può svolgere ancora un ruolo propulsivo ed offrire opportunità in Europa. Si tratta nel complesso di un’economia dinamica, la cui crescita non potrà essere interrotta dalle resistenze del mondo occidentale, il cui peso va di contro diminuendo. Appare poco sensato dunque tentare d’ostacolare un paese che si accinge ed è già, in parte, tra i più importanti al mondo anche nello scacchiere geopolitico. Si tratta, insomma, di una potenza con cui si deve fare i conti, volenti o nolenti. Occorre dunque, per prima cosa, superare il latente etnocentrismo di alcuni paesi e delle rispettive opinioni pubbliche, che si riflettono nei rappresentanti politici, che non hanno ancora completamente accettato il processo di trasformazione del mondo in senso multipolare, ove sempre più bilanciato è il potere fra le cosiddette “democrazie avanzate” ed i paesi del terzo mondo, fra i quali oggi spiccano le cosiddette “economie emergenti”.
Peraltro, non si comprende come l’entusiasmo di alcuni governanti europei per il TTIP (il trattato transatlantico con gli Stati Uniti) e le entusiastiche dichiarazioni a favore del mercato libero e comune cui questo ci farebbe accedere, si concilino con il rifiuto del riconoscimento del MES, che per conseguenze sarebbe decisamente meno “rivoluzionario” e vincolante del TTIP. Inoltre, l’eventuale ratifica del TTIP, che per il momento sembra essersi arenata, è una delle ragioni per cui la Cina teme, giustamente, d’essere esclusa economicamente e politicamente. Da un lato, infatti, il TTIP racchiuderebbe l’Europa all’interno di un enorme mercato comune, escludendo la Cina, dall’altro lo stesso farebbe il TPI (il trattato che mira ad escludere la Cina dall’altra parte, nel Pacifico). Se a ciò si aggiunge l’eventuale mancato riconoscimento del MES, è evidente che le ragioni per una sindrome d’accerchiamento da parte cinese sono più che giustificate. L’Europa non è una succursale degli Stati Uniti, non lo è economicamente, e non lo deve essere politicamente, il prezzo, oltre che l’esistenza stessa, è la credibilità. Contribuire all’accerchiamento della Cina appare come una mossa anti-storica, dettata dall’intenzione di voler ostacolare la crescita di un paese per un secolo relegata nello scantinato della storia. Riconoscerle questo status dunque sarebbe anche un’opportunità per l’UE, al fine di dimostrarsi un attore globale autonomo ed in grado di negoziare e prendere decisioni strategiche in piena autonomia e unità, una capacità invece mancata molto negli ultimi anni, se non sempre. Alzare un muro contro la Cina, in questo momento storico, significherebbe incrinare i rapporti con il paese, minando la propria credibilità politica ed economica in un sol colpo.
La mozione finale, come già detto, non è vincolante, e sembra lasciare spiragli, sia per il mancato riferimento ai cinque criteri dell’UE, che può lasciar sperare Pechino, sia per la disponibilità a ridiscutere la questione dopo il summit con la Cina. Naturalmente, inoltre, vi è una soluzione intermedia fra il riconoscimento automatico dello status ed il diniego dello stesso; tale posizione intermedia consisterebbe in un’accettazione dello status di economia di mercato, limando tuttavia la stessa con accordi trovati su base paritaria con il partner cinese. Tale opzione non deve essere esclusa, e potrebbe persino apparire come la soluzione più adeguata, agli occhi della commissione europea, per salvare allo stesso tempo credibilità, affidabilità ed economia, senza necessariamente cedere completamente su ogni punto.
Il tempo stringe: la decisione finale dovrà essere presa entro l’11 dicembre, quando l’articolo in questione sarà ufficialmente divenuto obsoleto.
Marco Zenoni
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