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Libia: l’ISIS perde Sirte ma l’Occidente persevera nei suoi errori

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Le notizie che provengono dalla Libia sono forse sottaciute ma sicuramente di grande importanza. A Sirte le milizie di Misurata e le truppe del Generale Haftar hanno circondato la città, assumendo il controllo del porto e ricacciando nel deserto gli uomini dell’ISIS. Per un paese dove ancora manca una vera e credibile autorità centrale, sprofondato nel caos più totale, si tratta certamente di un fatto di primaria importanza. Ma, paradossalmente, questa novità rischia d’aggravare la situazione libica anziché alleviarla.

Il governo ufficialmente riconosciuto dalla comunità internazionale e capitato da Serraj, infatti, non ha la forza per imporsi sul frastagliato panorama politico e regionale libico. La poca truppa a sua disposizione è più una guardia del corpo in sua tutela che un vero e proprio esercito capace di mettere in riga le forze ad esso contrastanti di Misurata o della Cirenaica. Per quanto la comunità internazionale applauda a Serraj per la riconquista di Sirte, in realtà essa è merito delle forze che lo tengono in scacco ed in ostaggio. Con quest’azione, tali forze hanno dimostrato la loro potenza ed importanza in Libia, ed ancor di più la loro indispensabilità per qualsiasi processo di ricostruzione e governance del paese. Se si vorrà costruire una Libia unita, non si potrà far meno di coinvolgerle e di dar loro un ruolo di primo piano nel paese, il che significa anche consegnar loro una chiave per accedere alle serrature delle sue tante ricchezze, dal petrolio ai fondi sovrani. Continuare a puntare solo ed esclusivamente su Serraj, leader calato dall’alto, scelto unilateralmente dalla comunità internazionale per amministrare le sorti dei libici, è una tattica perdente, che conduce l’Occidente e i suoi alleati in un vicolo cieco. Serraj, oggi, dopo la caduta di Sirte, è un leader ancor più sotto ricatto di prima.

Che ci piaccia o meno, bisogna tener conto del quadro delle alleanze internazionali: Haftar, per esempio, è sostenuto dall’Egitto, che a sua volta appoggia anche i gheddafiani nel sud del paese, sempre allo scopo d’arginare i ribelli islamisti eredi di coloro che nel 2011 fecero la guerra a Gheddafi. Tutti i paesi limitrofi, dal Ciad al Niger, sostengono costoro, anche perché hanno davanti a sé l’esempio del Mali, dove Al Qaeda e i guerriglieri fondamentalisti, dopo essersi fatti le ossa proprio in Libia, entrarono portandosi dietro parti dell’immenso arsenale libico e costituendo uno Stato nello Stato. L’Egitto ha ottime relazioni con la Russia e con la Cina, al punto da essersi pure riavvicinato alla Siria. E la Cina, dal canto suo, può vantare relazioni privilegiate con tutti i paesi dell’Africa sahariana e subsahariana, a cominciare proprio da quelli che avversano l’ISIS, la sua diretta filiale Boko Haram e i ribelli libici non poi tanto diversi da quest’ultime due realtà.

Se l’Occidente e i suoi alleati del Golfo Persico pensano di poter andare avanti da soli, nella ricerca di una soluzione al difficile rebus libico, senza interpellare o coinvolgere quanti a livello internazionale e locale hanno un’importante voce in capitolo, allora non potranno che andare incontro alla sconfitta. Un ravvedimento, per quanto tardivo, sarebbe sempre benvenuto, ma ciò significherebbe sconfessare tutto il lavoro fatto sino ad oggi, a cominciare dalla sanguinosa guerra del 2011. Giungerà mai quel momento?

Pubblicato su l'Opinione Pubblica - Quotidiano Indipendente di Informazione - Diamo spazio al tuo punto di vista da Filippo Bovo


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